Nella sede del seminario vescovile, dove risiede, ho chiacchierato con don Luigi di fede, gioventù, famiglie e di…mollare la pulsantiera.

Don Luigi, il 18 settembre ha partecipato all’incontro unitario di inizio anno parrocchiale a Crotta d’Adda. Che impressione ha avuto della nostra comunità?

È stato per me un importante momento di ascolto. Si è parlato tanto di giovani e, soprattutto, della loro assenza nella parrocchia. Ho percepito grande tristezza e, a tratti, un senso di colpa da parte di chi era lì. Molte delle domande rivolte al Vescovo giravano attorno a questi due sentimenti, perché in tanti hanno ritenuto di aver fallito, di non essere riusciti a indirizzare i giovani – addirittura i propri figli! – verso una scelta cristiana. Avrei voluto parlare con queste persone, ma ho ritenuto che non fosse il momento adatto.

In che senso?

 A Crotta ho percepito la necessità di sollevare l’argomento, ma quello che avrei voluto fare io sarebbe stata un’analisi della situazione giovanile più ampia. Un passo probabilmente troppo lungo, che ho preferito rimandare. Ci sarà tempo.

La comunità sta imparando a conoscerla, penso che le sue considerazioni interessino tutti noi.

La questione del “cosa fare con i giovani” non è nuova. Certo, negli ultimi anni si è acuita la loro scarsa presenza in parrocchia, ma è da tempo che sento questi discorsi. Ricordo che a Pandino avevamo coniato un nuovo termine per la festa del ciao dell’ACR: la festa del “ciao definitivo”, perché in pochissimi erano quelli che partecipavano. E anche a S. Abbondio, quando ero giovane, la situazione non era delle più rosee. Io partecipavo, ero presente, ma ricordo che il vicario di allora “resisteva”, come si dice. Le difficoltà emerse a Crotta sono fondamentali, ma forse è necessario un altro approccio.

Non ritiene, quindi, che sia necessario il coinvolgimento dei giovani in parrocchia?

 Al contrario, è uno dei punti centrali. Il problema è come captare il loro interesse. Se viene proposto qualcosa di pratico, di fattivo, allora li si attrae. Ma se si rimane sulla vecchia concezione dell’incontro, dell’adunanza…beh, è come andare a scuola, e certamente ai ragazzi non piace. Comunque, non è nemmeno questa la questione principale. Quello che avrei voluto dire all’incontro unitario è che occorre lavorare sulla famiglia tutta, non solo sui giovani.

In che modo?

 Quando ero prete novello, sentivo dire spessissimo che è necessario far sì che i giovani partecipino alla comunità parrocchiale. Già allora mi chiedevo “e gli adulti?”. Alla fine, è nelle famiglie che i ragazzi si formano. Pensi al popolo ebreo: fino ai dodici/tredici anni dipendevano completamente dalla famiglia. La società è molto cambiata, certo, ma anche il vescovo Antonio diceva che “saranno le famiglie a portare avanti la formazione”. È lì che si gioca molto.

Quindi dà in qualche modo ragione a chi si è sentito in colpa per non essere riuscito a coinvolgere i propri figli?

 No. Mi faccia spiegare quello che intendo. La prendo un po’ larga, ma così parliamo un po’ di me [ride, nda]. Io vengo da trentasei anni di cammino neocatecumenale. Quello che, a mio avviso, funziona in tale itinerario è quanto avviene nel “post-cresima”. Un adulto della comunità si prende a cuore un tot di giovani, solitamente sei o sette. Se li cura, per così dire, anche per quanto non riguarda direttamente l’aspetto della fede. Li si va a prendere a casa, ci si mangia la pizza insieme. Poi, un bel giorno, raggiungono la maggiore età. E a quel punto sta a loro.

Nel senso che tocca a loro occuparsi dei giovani?

 No, nel senso che devono scegliere cosa fare: rimanere nella comunità, uscirne, rimanere credenti. E guardi che non ha senso obbligarli, o tentare di fare leva sul senso di colpa. La scelta “o fai questo o niente” non ha ragione d’essere. Ci vuole pazienza con i giovani, ce ne vuole anche con Dio. D’altra parte, le Sue vie sono spesso insondabili.

Intende dire che l’importante è “seminare”, con i giovani?

 Certamente. E a quanti hanno affermato di sentirsi in colpa all’incontro unitario, voglio dire che bisogna “lasciare la pulsantiera”. Con i giovani, con i propri figli si fa quello che si può, ma a un certo punto bisogna fermarsi. Non perché ci si disinteressa di loro, ma perché quella pulsantiera, alla fine, è nelle mani del Signore. Se si è fatto tutto il possibile, allora non resta che affidarsi a lui.

Ma la chiesa avrà pure un ruolo, in tutto questo.

 La chiesa deve essere pronta ad accogliere questa gioventù. Se mi passa il termine, la chiesa deve agire come un ospedale da campo, nel mondo di oggi così pieno di crisi e di rotture. Intendo dire che la sua funzione è innanzitutto quella di soccorrere, prima ancora che di curare. Non deve guardare di quale fazione è il ferito, se aveva disertato o chissà che altro. Si aiuta e basta. Faccio di nuovo riferimento al cammino neocatecumenale: è fondamentale accogliere tutti, senza stracciarsi le vesti se qualcuno si perde lungo la strada. Bisognare amare il prossimo, indipendentemente dal suo aderire o meno alla fede cristiana. Chissà come sarà il “terzo giorno”, ma certamente, lo ribadisco, la chiesa tutta deve riformarsi ascoltando tutti, anche chi è contrario a essa. D’altra parte, la Pasqua l’ha fatta Giuda. Senza Giuda non si fa un bel niente.

a cura di Marco Marigliano