La Quaresima è sempre tempo di ascolto, di conversione, di rinnovamento. Domenica 4 marzo, nonostante il freddo e la neve, un buon gruppo di parrocchiani ha partecipato al ritiro spirituale che si è svolto a Bozzolo, tutti in rinnovato ascolto di don Primo Mazzolari.
Nella mattina ci si è fermati su alcune pagine del testo Tempo di credere, una rilettura dell’incontro di Gesù con i due discepoli di Emmaus che ancora oggi—attraverso le suggestioni di don Mazzolari— ha provocato a cogliere la straordinarietà di questo nostro tempo. Come anche la Grazia della fede che abbiamo ricevuto e che diventa una responsabilità, una ricchezza da amministrare anche a favore dei fratelli che non credono. Abbiamo poi celebrato la Messa nella Chiesa parrocchiale e pregato sulla tomba di don Primo.
Dopo il pranzo condiviso—un bel momento di comunione e di scambio cordiale—ci si è messi in ascolto di don Bruno Bignami, postulatore della causa di beatificazione di don Primo, che ha presentato la figura e il pensiero del servo di Dio Mazzolari e poi la visita alla Fondazione che ne tiene viva la memoria. Una bella giornata ricca di spunti e di grazia.
Qui di seguito riportiamo il testo di Mazzolari su cui abbiamo meditato.
Si tratta di alcuni stralci presi da Primo Mazzolari, Tempo di credere (Brescia 1941)
E’ il commento al brano di Luca dei due discepoli di Emmaus (Lc,24-13-35) nello stile mazzolariano di un continuo intreccio tra pagina evangelica e discernimento dei segni dei tempi. Con un’attualizzazione antropologica che trascende la semplice attualità degli eventi, risultando ancora oggi un testo vivo e provocatorio. Infatti è stato scritto alla vigilia dell’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale: ma il testo vi fa continui riferimenti allusivi senza intervenire brutalmente nel commento alla guerra e dei problemi annessi, probabilmente nel tentativo di non essere censurato (come invece avverrà per ordine del Ministero della Cultura Popolare Fascista che sequestra il testo il 5 marzo 1941).
L’inizio e la fine del libro sono un forte richiamo a credere, perché “non può esistere un cristiano neutrale” (p. 16). Ci si trova in un mondo con tante povere fedi (nelle ideologie) e invece occorre tornare all’unica fede in Gesù Cristo, il Salvatore. Una fede che chiede alla ragione di andare oltre le paure e le minacce dei tempi presenti (le ideologie e le dittature con le loro guerre).
È tempo di fede: ma di quali strane fedi è pieno il mondo! L’uomo si è dimesso perché molti gli dicono che c’è qualche cosa di più grande di lui, di più urgente del suo destino. Io vi dico che non c’è nulla di più urgente del destino di salvezza che investe ogni uomo: che c’è sempre stato Qualcuno di più grande dell’uomo, e che tutti i tempi sono tempi straordinari. Non esistono tempi ordinari. Esistono invece molti uomini che non capiscono la straordinarietà di ogni ora, per il solo motivo che non è solcata da portentosi avvenimenti. Non ci si deve mettere a ragionare perché c’è bonaccia, ma perché sotto qualunque tempo è doveroso ragionare com’è doveroso arrivare di là della ragione. Son due momenti egualmente necessari della stessa necessità di vivere da uomo, i quali si confondono e marciano insieme anche quando par che combattano. Il guaio incomincia quando la gente, la quale non riconosce lo straordinario d’ogni epoca, incalzata da avvenimenti subitanei e sproporzionati alla propria fantasia, perde, con la ragione, la stessa dignità, e s’attacca e crede a tutto pur di campare (p. 18).
Un giovane che vive con passione l’ora meravigliosa di questo mondo traboccante d’energia, d’ardimento e d’immaginazione, non può sentirsi invogliato ad occuparsi di una Chiesa che non si presenta con richiami di alta tensione spirituale. Davanti alle Chiese che si fanno deserte e fredde, non c’è che una risposta: una nuova fiamma nella Chiesa. Per questa fiamma che è “la novità” della Pasqua, non occorre rubar legna a nessuno (p. 33).
Le suggestioni del testo sono moltissime e qui ne riprendo solo alcune, attraverso alcune citazioni, mettendoci in ascolto diretto di Mazzolari. La prima esprime la necessità di una fede viva e non ridotta a dottrina intellettuale. Eppure anche nel fatto di Gesù è insito il pericolo: quello di ridurlo a storia passata… Ed è ciò che è capitato ai due di Emmaus: per loro Gesù è un personaggio del passato. Ma dove manca il Vivente (perché morto) non c’è più rapporto religioso.
Per chi «non ha visto, sentito, toccato» è facile che l’insegnamento del Signore divenga soprattutto una dottrina, e che si miri a costruirla sistematicamente, più che a viverla.
La conoscenza dell’insegnamento del Signore ne ha guadagnato, mentre è rimasta scarsa la conoscenza di Lui, che, ai fini della salvezza, è più urgente dell’approfondimento del suo insegnamento. «Questa è la vita eterna: ch’essi conoscano Te … e Colui che Tu hai mandato…».
La dottrina, di Gesù è un’immagine di Lui, e da sola non basta a darci la vera conoscenza. Talvolta un sapere prevalentemente intellettualistico trattiene più che accostare, suscita dubbi invece di calmarli.
La conoscenza che fa la “nuova creatura” oltre la conoscenza dell’insegnamento del Signore che ci viene dalla Chiesa, depositaria sicura, richiede la conoscenza del “fatto di Gesù”; cioè la conoscenza personale del Signore (p. 97).
La Fede non è un puro rapporto della mia mente con le Verità rivelate, ma un inserimento di tutto me stesso nel “fatto di Gesù”, il Vivente.
La Chiesa ha sempre tenacemente difeso contro ogni invadenza e volatilizzazione intellettualistica il fatto di Gesù e la sua vera integrità.
Ma il fatto ha un pericolo che il concetto (flatus vocis) non conosce: può essere il fatto di ieri.
Per i Due, Gesù è una potenza passata. «Era potente in opere e in parole» (p. 98).
Mazzolari prosegue a commentare la mancanza di speranza dei due discepoli come pure dell’uomo di ogni tempo… E cerca di ravvivare i segni dell’avvento di Cristo, la sua presenza, la sua venuta incessante, anche se i nostri occhi non lo sanno riconoscere, come quelli dei due di Emmaus.
I Due sono cronisti esatti e precisi, ma non sanno leggere negli avvenimenti la novità. Come cronisti, sono esemplari; come storici, manchevoli.
Senza arrischiare congetture che i fatti possono incaricarsi di smentire a distanza di pochi giorni, lo storico deve “sentire” anche il domani, specialmente quando guarda gli avvenimenti con fede e passione.
Una verità che si anima sotto la cordialità del nostro sguardo, non ha nulla di sospetto e non diviene meno accettabile. Il calore toglie forse qualche cosa allo splendore del sole?
Segnare ciò che cade è cosa buona: avvertire ciò che rispunta sotto le rovine è un primo dovere del cristiano.
L’attenuarsi del senso dell’avvento documenta la nostra decadenza spirituale.
Conservatori poco intelligenti, abbiamo soltanto l’occhio su ciò che muore, e non sappiamo dare, con ilare e intelligente Prontezza, un senso cristiano alle voci del Risorto, le quali non possono essere decisive e laceranti come i gridi del Calvario.
Se no, l’avventura cristiana non avrebbe senso e la fede non sarebbe più un vedere nel “non vedere”.
I segni d’avvento sono visti da coloro che hanno un’anima d’avvento (p. 106).
Per vedere, per riconoscere i segni del Gesù che viene occorre avere un animo desto, intelligente, aperto al futuro, liberi dal materialismo incombente: “In un sepolcro vuoto non è detto che ci sia la vita: ma è necessario che il sepolcro sia vuoto per credere nel risorto” (p. 107). Per questo la vera crisi è religiosa, più che economica (p. 115) incamminati come si è verso un nuovo paganesimo, di fronte al quale occorre vigilanza e intelligente opposizione (p. 119).
Ai due discepoli Gesù rimprovera di aver avuto una concezione falsa del Messia. Ma poi così commenta Mazzolari:
Che cosa ci rimprovera il Signore?
La mancanza d’intuizione o d’istinto religioso, che ci porta verso schemi, che nei Due rispondono a fantasie messianiche di grandezze temporali, e in noi, a fantasmi pressoché eguali, quantunque sotto nomi è giustificazioni diverse.
Fu cambiato l’otre, ma il vino rimase quello d’una volta. Che c’è di diverso tra il messianico d’allora e gl’imperialismi di oggi, ai quali i cristiani d’ogni confessione vanno sacrificando, con servile compiacenza, le loro più sacre e inaccordabili parole? (p. 131-132).
Nella parte finale ci sono pagine bellissime: ne riporto alcune, nella fatica di scegliere.
Siamo arrivati alle prime case di Emmaus senza accorgercene. Si cammina bene col Signore, anche quando non si sa che è Lui che ci cammina accanto. La sua Presenza opera senza di noi. «Non ci ardeva il cuore mentr’Egli ci parlava per via?».
Nessuno dei Due s’è fermato a guardare il villaggio (p. 139).
Emmaus: un mucchietto di case, una sinagoga, una taverna sulla strada, qualche palma, qualche orto, poi tanto cielo.
No, non voglio vedere di più: non ho bisogno di vedere di più. So che qualche cosa mi è vicino: so che sto per arrivare “dove volevo andare” (140).
I Due sono arrivati «al villaggio dove andavano», ma Emmaus ha quasi perduto ogni importanza ai loro occhi.
Il Forestiero, senza mostrarlo, li aveva disamorati del loro viaggio. Erano arrivati, ma il loro cuore era già oltre Emmaus.
Il Signore ha una strana maniera di disincantarci.
Egli non dispregia nessuna nostra meta, non condanna i nostri ideali, anche se meschini, non si scaglia contro i nostri affetti terreni. Ci fa un cuore nuovo, ce lo dilata, ce lo sprofonda, e, se il vecchio uomo non vuol cedere, ci porta via tutto perché lo schianto ci tolga l’ultima illusione del senso.
Gesù non ha rimproverato i Due perché andavano ad Emmaus, barattando con il rumore dissipatore della strada il silenzio raccolto del Cenacolo: non ha spregiato Emmaus.
Non si demoliscono senza pericolo e senza sollevare ostinate resistenze i piccoli appoggi. Due poveri discepoli, stanchi e sperduti com’erano, cosa potevano pensare di meglio di Emmaus?
Per chi “ha scoperto il tesoro”, i confronti son facili e “il vendere ogni cosa” è una festa. Ma chi non vede nulla, e solo ne sente parlare come di cosa che può esistere, il buttar via anche una briciola è una follia (143).
C’è molta gente che sa far la predica sul peccato, ma troppo pochi sanno far sentire che il bene è bello, che il volersi bene è bello, che il prodigarsi è bello.
Prima di disamorare bisogna innamorare: prima di chiudere una porta sul tempo bisogna spalancare una finestra sull’eterno (p. 144).
Lo invitano quindi a restare, offrendogli l’ospitalità in una maniera così delicata che par quasi ch’essi la ricevano da Lui, s’Egli accondiscende a rimanere.
Gli avvenimenti avevano consumato la loro fede: il Messia era stato inghiottito dal sepolcro tre giorni prima: ma qualcosa del Maestro era rimasto in loro e si era ravvivato lungo il cammino mentre Quegli parlava.
Certi discorsi di Lui erano improvvisamente riaffiorati, e la sua pietà si ristampava nel loro animo come nel Samaritano della strada che va da Gerusalemme a Gerico, come sul lino della Veronica.
– Avevo fame e m’avete dato da mangiare … ero Pellegrino e mi avete ospitato… – Qualunque cosa farete all’ultimo la riterrò fatta a me -.
Invitando il Forestiero a rimanere, i Due sentivano di rendere un omaggio alla memoria del Maestro: era la maniera più giusta di commemorarlo, di averlo vicino ancora, di stargli ancora insieme.
La loro anima ritornava ospitale: avevano pietà del Cristo povero, del Cristo pellegrino che camminava nella notte verso una meta ignota.
Nel calore del discorso s’eran dimenticati di chiedergli chi fosse e dove andasse: ma da straniero ch’Egli era al suo apparire, s’era inavvertitamente fatto “prossimo”. La carità li disponeva alla Comunione (p. 155).
L’Eucarestia non può avere una preparazione diversa di questo sguardo di pietà che, raccogliendo il Cristo da ogni strada buia e abbandonata, ne vive in pieno l’avventura e Gli chiede, invece di un piccolo rifugio, la forza di riconoscerlo ovunque, di amarlo ovunque, di ospitarlo ovunque (p. 156).
Capisco adesso perché l’onnipotente si fa bambino: perché l’onnipotenza si veste della più grande impotenza, e chiede a tutti, ed ha bisogno di tutto, anche di una stalla abbandonata, del fiato di un asino, di un po’ di paglia, di una taverna…
Capisco adesso perché il Signore entra nella taverna di Emmaus. La taverna, come il Presepio, è la casa dell’Accondiscendente, la scuola che confonde i savi e depone i potenti.
Che strana maniera di confonderci e di deporci!
Noi ci vestiamo di ferro e di acciaio: ci mettiamo intorno fortezze di cemento e campi di mine; ci serviamo di ordigni che vomitano fuoco e morte. Vantiamo la nostra forza uccidendo.
Che povera forza una forza che uccide!
Mentre il Forte si veste di povera carne, una carne che ha freddo, che ha fame. Già piange, già sanguina questa povera carne di un Dio fatto bambino, di un Dio fatto pellegrino.
Noi ci barrichiamo, scaviamo trincee, tracciamo limiti… e l’inaccessibile, l’inviolato, l’Eterno entra nel tempo, scende sulla terra, prende dimora fra gli uomini, toglie il limite fra l’infinito e il finito, tra l’umano e il divino e si mette a servizio di tutti, alla mercé di tutti …
Quale temerità! O non ci conosce, o la sua carità è così grande che può passar sopra a tutte le misure e a tutte le precauzioni della nostra saggezza (p. 158).
Mazzolari insiste su questo Cristo che si mette a tavola con loro, trasformando la taverna in una basilica. Ora si siede tra i due, prende il pane, lo benedice, lo spezza… e lo riconoscono.
Ogni gesto è commentato e attualizzato nella vita della sua gente, quella che gli fornisce il pane, quella che lo porta a riconoscersi bisognoso di purificazione… e perché l’eucaristia diventi fermento del bene…
Le ultime pagine sono ancora sul credere:
– credere per chi non crede
La mia fede è mia e di tutti coloro per i quali il Signore me l’ha data. Essi hanno diritto su questo “deposito” che appartiene a me come a loro e tutti vi possono attingere…
Chi crede non è che l’amministratore del multiforme dono del Signore, il quale, se è stato raccolto nella mia anima piuttosto che in quella di un altro, non lo si deve a una capricciosa disposizione del Signore, ma alla sua sapientissima carità che mi fa obbligo di «dare gratuitamente quanto gratuitamente ho ricevuto». L’occhio che ho, è per il cieco: il piede, per lo zoppo, il denaro per il povero: la Fede, per chi non crede (181-182).
– credere con chi crede
L’avventura della Fede è qualche cosa di fresco e di chiaro come il mattino…
Chi ha visto il Cristo, lo vede in ogni creatura e in ogni avvenimento: chi ha ricevuto da Lui, non ha più nulla da domandare né agli uomini né alla storia: chi ha visto l’Immolato ripetere il suo Dono sul tavolo di una taverna, sa che da tale offerta consumata ogni mattina sull’altare del proprio cuore, spunterà la nuova giornata…
Nessuno è mai così fuori dalla chiesa da non potervi un giorno tornare come operaio inconfondibile…
I Due portano il messaggio del Risorto «agli Undici e a quelli ch’erano con loro», con sicura fede, umile gioia e sollecitudine riparatrice.
Vogliono farsi perdonare di essere usciti come sono usciti, e di aver visto, nonostante questo, il Signore.
Quando un messaggio del di fuori viene portato con tanto garbo spirituale, si può sperare che venga ben accolto anche da quei credenti, ai quali non si può portare senza rischio qualsiasi voce del mondo dei lontani…
I Due che di notte battono alla porta del Cenacolo sono dei profeti più che degli apostoli.
Nella Chiesa, accanto alla gerarchia e nella obbedienza di essa, il profeta ha il suo posto e la sua missione.
Egli è l’uomo che il Signore sceglie nelle ore difficili e gli affida i compiti più delicati e urgenti.
I grandi santi sono profeti, come può esserlo anche l’ultimo cristiano o uno di fuori.
Nei Due troviamo la fisionomia del vero profeta. Essi non dicono agli Undici: – Abbiamo visto il Signore perché siamo usciti, dal Cenacolo – …Non oppongono cioè, la strada alla Chiesa, la taverna al Cenacolo. Raccontano «le cose avvenute loro per via e com’era stato da loro conosciuto nello spezzare il pane», ma così dimessamente da farsi perdonare che il Signore abbia avuto pietà del loro andar lontano (185-188).