Enrico Merli è un nostro parrocchiano, da alcuni anni ospite nella casa di riposo “La Pace”. Nell’ultimo giornalino della Casa di Riposo c’è anche una sua pagina che narra vecchi fatti, ma ancora scolpiti nella sua memoria. Ritorna con il pensiero a quando era in un campo di concentramento in Germania. Riportiamo questa pagina perché essa ci dice della possibilità della vera carità ovunque, anche in un campo di concentramento.
Solennità di “Tutti i Santi” 1° novembre 1943
Austreten! Los! Los! Verflueter! Hund! Zau! Faulpelz! ecc, ecc….
Non sono certo le litanie dei Santi che i guardiani e i capisquadra han già intonato.
È buio ancora, il freddo è pungente. Siamo assai poco coperti, né maglie né corpetti.
L’aria carica di nebbia, si insinua su per le maniche ad accapponare la pelle con il suo tocco carico di umidità. Di fianco alla gran casa padronale risuona, triste e monotono, lo strascicar di zoccoli pesanti sull’acciottolato dello spiazzo.
Sono i prigionieri ed i deportati che iniziano una nuova giornata di lavoro e di fatica. Ogni gruppo ha il posto stabilito, vi si mette in fila. Le donne e le ragazze formano il gruppo più numeroso, sono tutte infagottate e smunte. Sono: russe, ucraine, polacche, slave. Molte scrutano fra gli uomini alla ricerca ansiosa: dei figli, dei mariti, dei fratelli e di chi sta loro a cuore.
Fra le donne ci sono alcuni bimbi di sesso indefinito. Son ricoperti da paludamenti strani, sovrabbondanti, stracciati sino all’inverosimile, inadatti ad ogni uso e certamente non a rivestir bambini. Più che bimbetto sembran cagnolini randagi: son timorosi, ispidi, arruffati, attenti e pronti a rifugiarsi fra le gonne ed i pantaloni delle madri, vere o putative che siano, nell’istinto vano, di sfuggire a chi potrebbe far loro del male.
Mi guardo intorno, anche fra gli uomini è la stessa cosa. Mi sento tanto triste e sconsolato, ho il cuore colmo di angosciosa e struggente amarezza. Rivolgo al cielo una preghiera, è vuota di parole ma carica di fiducia e di speranza. Il gruppo degli italiani è il più sparuto, siamo solo una quindicina.
Si parla a mezza voce, le lingue sono varie e assai confuse. Solo il francese mi sembra un po’ di casa: russo, ucraino, polacco, slavo, han suoni simili, solo col tempo, senza capir gran ché, avrei imparato un poco a distinguerli tra loro.
Ci contano, ci spingono, chiamano, controllano, sgridano, gridano comandi, imprecano. Si tace.
La brina gelata cade dagli alberi, si infila lungo il collo e par che scotti. Inizia ad albeggiare.
“Herr Major” annuncia l’Herr Inspektor. Ma tutti l’han già visto e bene notato. Vestito con un pastrano verde, fasce alle gambe, marziale, fa lunghi passi con il suo stock al fianco e il suo cane. Ecco il padrone, da tutti assai temuto e con ragione. È maggiore dell’esercito tedesco, comandante capo del campo di lavoro annesso alla sua grande tenuta agricola boschiva.
“Heil Hitler” salutano i tedeschi!
“Heil Hitler” risponde l’Her Majior!
“Gut Morg” salutiamo noi con il berretto in mano.
I capi, brevemente, parlano tra loro, formano le squadre. Con altri sono assegnato a cavar le bietole da zucchero. S’ode il segnale: è martellante, metallico, acuto, penetrante e cadenzato, quasi fosse una campana a festa. Ma festa per noi tutti proprio non è. Il suono proviene non da campana ma da un disco in ferro (ex macina da mulino) appeso a un gancio infisso nel muro. L’hofmaister, (mastro di corte) con un martello lo percuote all’ora stabilita. Segnala quattro volte al giorno la durata del lavoro per noi tutti. “L’Herr Major” per il momento rientra in casa, lo segue il cane.
Pungolati, non sempre solo a voce, portando gli attrezzi da lavoro, si parte, ognuno col proprio gruppo. Durante il cammino ci scambiamo i saluti e le poche parole che sono bagaglio comune, con molta mimica gestuale.
Il campo delle bietole è molto vasto, si stende, ondulato, a perdita d’occhio. Il vento sta spazzando via la nebbia, grosse nuvole spumose incombono e si rincorrono nel cielo. Sullo sfondo si intravede una bordura scura, è un bosco di conifere (abeti).
Alla mia destra non si distingue dove finisce il campo. Constato poi che termina con una gran scarpata. Al fondo quasi un lago, si trova il grande stagno. È molto grande, la nebbia bassa si adagia sull’acqua. È punteggiato da alcune piccole isole ricoperte da piante palustri; sono il rifugio di molti uccelli acquatici.
Le barbabietole sono ricoperte di brina e di aghi di ghiaccio. Dopo un po’ le mani sono talmente fredde ed intorpidite che non riesco più a stringere tra le dita i ciuffi delle foglie e le radici da estirpare. Una ragazza russa, curva nel lavoro accanto a me, accortasi che rimango indietro e non mantengo il ritmo nella fila, mi guarda e mi sorride, mi butta uno dei suoi guanti di stoffa. È sporco e logoro ma assai prezioso, mi posso riparare alternativamente le mani.
Quel sorriso e quel generoso gesto di solidarietà e vera carità mi commuovono e mi rincuorano. Mi ricordano il fatto narrato nel Vangelo di quella vedova, povera, che fa la sua offerta al tempio.
Non ricordo più il nome di quella povera “dievriscka” e solo vagamente ne ricordo il viso. Sempre però le serberò un sentimento grato per quel suo sorriso e il generoso dono, tanto più impreziosito dall’estrema miseria in cui ci si trovava.
Wesendhal (1943).
Enrico Merli