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Dopo la trasfigurazione, Gesù scende dal monte e trova i discepoli a discutere animatamente con la folla, e li interroga: “Di cosa discutete con loro?” (Mc 9,16).
Si trattava del ragazzo epilettico indemoniato, che i discepoli non sapevano guarire/risanare/liberare. E in privato, ai discepoli, dopo aver scacciato lo spirito impuro, Gesù spiega la necessità della preghiera.
Poco dopo, quando sono in casa, Gesù ripropone la domanda: “Di che cosa stavate discutendo lungo la strada?” (Mc 9,33). Gesù per la strada, si dice proprio così, insegnava ai discepoli il mistero del suo essere consegnato, ucciso e poi risorgere. E loro? Di che cosa parlano animatamente? Interrogati da Gesù tacevano, perché per la strada avevano discusso tra loro chi fosse il più grande.
Di che cosa stiamo discutendo? Nel tempo del coronavirus, nel tempo del Covid 19, potremmo ritrovarci a parlare e a discutere animatamente su tante cose… su strategie di successo per debellare l’epidemia, su paure alimentate in modo eccessivo piuttosto che sulle scelte prudenziali per le fasce più deboli.
Anche se non esperti possiamo pretendere di avere ragione, possiamo alterarci per le decisioni delle autorità che non condividiamo. Possiamo sentenziare, condannare, litigare… come fanno certi talk show televisivi.
Ma poi entrati in casa il Signore ci chiede: “di che cosa discutete?”.
Ci sia il tempo delle discussioni e del ricercare strategie competenti per l’emergenza sanitaria. Certamente. Che però non sia l’alibi per non darci tempo per altri pensieri.
Sfruttiamo questi giorni – perché spesso il frullatore degli impegni ci giustifica dal pensare – per le domande essenziale che ci appartengono come uomini.
Entriamo in casa e riscopriamo la possibilità dell’incontro con il Signore. La possibilità di una riflessione pacata in famiglia… Diamoci il tempo per pensare, per riflettere, per ascoltare Dio che parla nel cuore di ciascuno. Diamoci il tempo per coltivare un poco la nostra interiorità… spiritualità.
Lascio solo qualche domanda che di getto mi vengono in questo tempo in cui forzatamente siamo un po’ isolati, un po’ in quarantena…
- Ci sentiamo spaesati, incerti, precari. La tecnologia, la scienza e il denaro non ci danno la sicurezza che promettono. Quale spazio diamo all’incontro con il Signore Gesù, che si presenta come il Salvatore, colui che ci ridà la vita piena? Che è come dire: la fede sembra essere un’esperienza anacronistica. Ma si può vivere umanamente senza fede? Oppure rischiamo di essere semplicemente distratti dalle cose da fare, illudendoci che le cose siano il senso della vita? Avere fede significa essere persone che pensano alle grandi questioni della vita e colgono una luce, si mettono in ascolto, osano un cammino di ricerca. Riesco a stupirmi dell’amore che promana dal mistero di Gesù? La fede è esperienza del riconoscersi amati.
- Ci riconosciamo misti di fango e spirito, di precarietà e di nostalgia di gioia. Accettiamo la condizione della nostra fragilità come un sentiero da percorrere, una traccia che ci porta ad ascoltare il sussurro di Dio dentro le pieghe della nostra vita terrena, intreccio di dolore e di speranze, di colori e di tenebre? Che speranza abbiamo per la nostra vita? E per quella dei fratelli (ma li considero concorrenti o fratelli)?
- Ci troviamo defraudati, impauriti, rallentati. Non lo abbiamo scelto: è la precauzione sanitaria che ci fa guardinghi. Ci è imposto. Sperimentiamo la condizione di chi è malato, disabile, anziano non più autosufficiente, scartato perché non più produttivo e dunque lasciato senza lavoro… Quante persone mentre il mondo impazza nella frenesia del lavoro e dei consumi, della finanza e dei divertimenti sperimentano l’essere tagliati fuori, tenuti lontano, come appestati. Che società stiamo costruendo? Come correggere la furia nevrotica degli impegni/consumi ri-trovando la gioia delle relazioni personali? È la domanda sulla carità. Perché alla fine tutto lasceremo nel precario succedersi dei giorni. Solo la carità, che è amore concreto per le persone, soprattutto per gli scartati, è la vera ricchezza che permane al naufragio della superbia. Parlare di carità significa domandarci: che relazioni sto vivendo nella mia famiglia, nella mia comunità, ma anche con i poveri che l’economia globalizzata guarda con sospetto come zombi appestati?
Don Enrico