Pietro è come uno specchio. Più lo guardiamo e più vi vediamo noi stessi.
Anch’io spesso mi sono ritrovato a recitare la sua parte. A volte convintamente, altre volta per sbrogliare una tensione imbarazzante, insopportabile.
Pietro è sincero nel riprendere, con garbo, in disparte, il Signore Gesù: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai» (Matteo 16,22).
Gesù aveva cominciato a spiegare che doveva andare a Gerusalemme, e soffrire, e venire ucciso, e poi risorgere. Ma per Pietro – che appena prima era stato lodato… tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa… – quello che Gesù dice è troppo, è sgradevole: che il Signore in un momento di sconforto abbia perso la speranza?
Anch’io mi sono ritrovato a dare speranze umane che rimanevano parole vuote, illusioni a cui nessuno crede. Le avevamo gridate: “Andrà tutto bene”, mentre i camion dell’esercito portavano via le bare, gli anziani morivano come mosche nelle RSA, gli ospedali non riuscivano a dare risposta alle nostre richieste di essere curati.
Chi andando all’hospice non è tentato di vendere un futuro falso? E allora cosa dire? Come pensare al presente e al futuro?
Come sarà la ripartenza? Quante ansie per la riapertura della scuola! E come far ripartire il catechismo? E cosa dire a un lavoratore espulso da tanto tempo dal mondo del lavoro? E a un coniuge in grande crisi? Come accompagnare un imprenditore in difficoltà? Possiamo semplicemente dirgli: “Andrà tutto bene?”. Possiamo limitarci a recitare parole mentre le persone sono nel dramma e nel rischio della loro vita?
“Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno”.
Gesù ha necessità di andare a Gerusalemme. Non può tirarsi indietro. Deve andare a compiere il progetto di amore. Anche lui dovrà lottare (pensiamo all’agonia nel Getsemani: “Padre, se possibile passi da me questo calice, ma non la mia, ma la tua volontà!”).
La sua è una scelta chiara. Una scelta d’amore. È la sua scelta. Ma noi? Noi poveri uomini?
Mi viene in mente il medico che spesso passa al mattino in Chiesa, prima di andare nella sua RSA. Non è un parrocchiano… ma se appena può tutti i giorni va a messa e spesso passa da Cristo Re. Erano in tre medici. Uno è morto di Covid; l’altro, dopo essersi ammalato, ora è in pensione. E lui è lì, in trincea. Ma passa ogni mattina a ringraziare il Signore. “Io devo ringraziare tanto il Signore!”. Anche lui si è ammalato… ma ora è lì. Di nuovo a rischiare. Anche lui “lavoratore fragile”: l’età lo porterebbe a restare in panchina. A mandare avanti altri. Ma chi?
È forte la tentazione di tirarci indietro. Di mettere in salvo noi stessi. Di lasciare agli altri il rischio…
E invece Gesù è chiaro: stare con lui significa smettere di collocare noi al centro, smettere di pensare a noi stessi e di voler salvare noi stessi.
«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà».
E questo non vale solo per i medici, ma vale per tutti!
Ognuno dove è. Ognuno con la responsabilità che gli compete.
Ho incontrato persone che mi hanno raccontato il loro isolamento, in ospedale, malati di Covid durante i mesi del lockdown. Di come hanno cercato di rifare la propria scelta battesimale, di vivere nell’amore anche se dentro la fragilità della malattia e l’apprensione per un futuro assai precario. Si facevano venire in mente alcune frasi del Vangelo. E quando hanno potuto col cellulare hanno cercato i salmi, il Vangelo, e li rileggevano… Si può vivere la malattia da disperati oppure cercando di restare in comunione con l’Amore, con il Signore. Ecco cosa vuol dire prendere la propria croce. Uno non sceglie la malattia o l’inedito lato rischioso della sua professione. Ma poi, però, comprende che non può fuggire. Non può tirarsi indietro. Occorre scegliere.
Conosco insegnanti che comprendono bene i rischi del loro ritornare a scuola, l’incertezza delle regole, la precarietà delle situazioni, l’assommarsi delle responsabilità, le tante incognite che frastornano: eppure hanno rivitalizzato la passione per il loro lavoro, hanno focalizzato il diritto allo studio dei loro alunni e si rimettono in gioco per affrontare insieme questo tempo inedito di pandemia. Sono consapevoli della loro fragilità, come lo è il personale sanitario che è in prima linea. Attuano le precauzioni necessarie. Ma poi con passione sono pronti a rimettersi in aula per il bene dei loro ragazzi. Lo vogliono. Lo scelgono!
Conosco imprenditori che non si arrendono di fronte alla crisi economica. Alcuni hanno anticipato la cassa integrazione per favorire i loro lavoratori. Di nuovo fanno la loro scelta: dare lavoro dignitoso è un dovere che sentono sulla loro pelle. Un dovere di coscienza. Non sono dei rassegnati ma di nuovo osano mettersi in gioco per garantire il lavoro. Perché un conto è sopravvivere mediante sussidi e un conto è vivere del proprio lavoro! Come abbiamo bisogno di buoni imprenditori!
Conosco pensionati che – con le dovute precauzioni, e anche se l’età e il buon senso di Pietro e del mondo suggerirebbero di pensare a se stessi e di non rischiare – si dispongono ad aiutare figli e nipoti, a portare avanti con il volontariato le attività del catechismo, della San Vincenzo, dell’oratorio… Senza di loro come potrebbero vivere tante iniziative di carità che esprimono un’autentica gratuità e prossimità?
Forse non lo dicono, forse sminuiscono la loro disponibilità come se fosse una cosa normale… eppure ci testimoniano di avere il coraggio delle scelte: il coraggio di non pensare a se stessi ma di rischiare l’amore, di rischiare per il bene dell’altro.
Smettere di pensare a se stessi e prendere la Croce non significa scegliere una vita di tristezza ma scegliere di seguire il Cristo, di amare come Cristo e di rinnovare il mondo. Anche in questo tempo di pandemia. Senza scuse. Con determinazione, anche se con qualche timore che ci rende prudenti, che ci rende ancora più attenti e misericordiosi, gli uni con gli altri.
Un po’ per diletto, un po’ per dovere, in questa estate ho letto diversi libri di don Primo Mazzolari, di cui è aperta la causa di beatificazione.
Mi hanno impressionato le pagine in cui parla della Rivoluzione cristiana. L’unica autentica Rivoluzione. Non quella che mette una classe contro un’altra, un popolo contro un altro, un gruppo contro l’altro. Questa è l’unica guerra che va vissuta: non quella reazionaria, non quella comunista, non quella coloniale… Ma quella di chi vive il Vangelo sine glossa. Lo vive con integralità. E si ritrova dalla parte dei poveri: che sono le persone di cui debbo prendermi cura: alunni, disoccupati, anziani, malati, profughi…
Questa la sfida: restare in ascolto del Vangelo e di come oggi ancora ci chiede di convertirci, di rimetterci in discussione, di uscire dalle false certezze di chi è intrappolato nelle sue piccole verità ed è incapace di aprirsi alla Verità dell’amore. Che è smettere di pensare a noi stessi, prendere la nostra croce e seguire Gesù.
C’è una Rivoluzione cristiana da portare avanti perché dopo XX secoli ancora ci sono uomini e donne che non hanno un lavoro dignitoso, ragazzi a cui garantire l’accesso alla scuola, malati che sono abbandonati e non curati, poveri che sono lasciati ai margini della società, popoli sfruttati da perverse regole economiche, cristiani perseguitati e uccisi a causa della loro fede, persone private della loro libertà, un creato che viene deturpato e ferito di continuo…
Il mio battesimo mi spinge ad accendere il fuoco di questa Rivoluzione cristiana: non posso restare in panchina, non posso dare le dimissioni, non posso giocare a difendere me stesso quando in nome di Cristo comprendo che altri hanno bisogno che io mi prenda cura di loro. Rischiando. Con Cristo.
Per questo vado a Messa. Ho bisogno di energie fresche e rendo grazie perché mi so dentro questo progetto di amore divino.
Don Enrico Trevisi