MARIO BUSINI E IL MOSAICO DI CRISTO RE
I soggetti sacri occupano un posto importante nella produzione artistica di Mario Busini, che in questo campo si è cimentato con successo anche in realizzazioni di grande respiro; basti pensare, oltre che alle numerose pale d'altare che si trovano nelle chiese della diocesi, al complesso figurativo realizzato a mosaico attorno al sacro fonte del Santuario di Caravaggio e alla monumentale Crocifissione eseguita ad encuasto sulla parete di fondo della chiesa di Cavatigozzi.
A questi temi l'artista si è accostato con rispetto. Come ebbe modo di scrivere Franco Voltini, che del pittore fu estimatore ma anche amico, in un saggio del 1977 "le sue opere per il culto sono il risultato di uno studio scrupoloso dei temi e di una elaborazione interiore alimentata di meditazione e di contemplazione". Questo processo di preparazione accurata e documentata ha caratterizzato anche la realizzazione di una delle opere sacre più monumentali di Busini, la grande decorazione a mosaico della chiesa cittadina di Cristo Re.
Il progetto iniziale
L'edificio sacro venne costruito negli anni 1958-59 su progetto di Aldo Ranzi e di Fulvio Melioli per servire il quartiere Po. La struttura architettonica, che ancora oggi si presenta essenziale ed un poco spoglia, secondo il progetto di Ranzi doveva essere completata mediante la decorazione cui l'architetto aveva destinato l'abside, i grandi riquadri che scandiscono la navata in tutta la lunghezza e la specchiatura al centro della facciata.
In particolare nella navata l'architetto aveva previsto la realizzazione della Via Crucis, che avrebbe dovuto essere affidata a più artisti in modo tale che ciascuno di essi vi dipingesse una scena. Era un progetto ambizioso ma lungimirante, che, se fosse stato realizzato, avrebbe dato vita ad una vera e propria galleria delle tendenze figurative dell'epoca.
Il nuovo progetto decorativo
La scomparsa dell'architetto impedì l'attuazione del progetto e fu solo nel 1962 che il parroco, don Rinaldo Boni, poté commissionare a Mario Busini un progetto decorativo per la chiesa. La proposta dell'artista comprova lo "studio scrupoloso dei temi"; infatti il progetto presentato era molto articolato sia nella composizione che nei concetti da rappresentare e prevedeva due possibili soluzioni. Una limitava la decorazione all'abside e al presbiterio, l'altra (di cui resta un rapido schizzo tracciato a matita) l'estendeva anche alle pareti della navata dove l'artista proponeva la scelta fra più temi coniugando le ragioni della fede con quelle dell'arte mediante la raffigurazione di parabole, da scegliersi appunto - come lui stesso scrisse - fra "le più significative e le più pittoriche", oppure episodi della storia della Chiesa esaltanti la gloria del regno di Dio, oppure ancora la rappresentazione dei sacramenti, che Busini definisce "mezzi di vita e di opere nel regno ed introduzione all'eternità", oppure ancora la rappresentazione di simboli tratti dai testi della liturgia della festa. La scelta cadde sul primo progetto, che richiedeva un minor impegno finanziario, e ristretta ulteriormente al solo vano absidale.
Qui il protagonista assoluto è il Redentore assiso in trono, per il quale è inevitabile pensare alla suggestione che può aver esercitato su Busini il precedente illustre del Cristo Pantocrator dipinto da Boccaccio Boccaccino nel catino absidale della Cattedrale, col quale quello di Cristo Re condivide l'atteggiamento ieratico ma al tempo stesso affabile ed i valori di chiarezza ed efficacia comunicativa.
COMMENTO TEOLOGICO
A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen. Ecco, viene sulle nubi e ognuno lo vedrà; anche quelli che lo trafissero e tutte le nazioni della terra si batteranno per lui il petto. Sì, Amen! Io sono l'Alfa e l'Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene, l'Onnipotente! (Ap 1, 5-8)
IL RE E IL SUO TRONO
Voluto o meno, l'impianto razionalistico dell'architettura di "Cristo Re" si comporta proprio come un omaggio al grande mosaico absidale. Null'altro può competere con la grandiosità imponente del Cristo in gloria, termine e prospettiva dello sguardo di chiunque entri in chiesa. Solo le due cappelle laterali consentono di riportare l'occhio e il cuore al centro celebrativo della chiesa: l'area della mensa eucaristica e della Parola. Centro assoluto è il Cristo glorificato sul trono (completamente sommerso dal sontuoso panneggio purpureo); un centro non solo geometrico-artistico, ma innanzitutto teologico: nella sua posizione gloriosa, circondata da un'aura dorata e sigillata dalla corona, egli è il Vivente, quel biblico figlio dell'uomo che viene intronizzato come figura di mediatore unico ed assoluto. A lui tocca di esprimere l'ineffabile: scandalosamente e definitivamente per i cristiani è la gloria di Dio Padre, presenza collocata sempre oltre la raffigurabilità. Nella logica neotestamentaria questo Padre si "concede" al credente come all'incredulo solo nelle sembianze incarnate di un uomo, segnato da ciò che umanamente appare ai più contraddittorio: il dominio universale (il mondo su cui sovrasta una croce) nella mano sinistra e l'ostentato foro sanguigno della sinistra.
Il cristiano è per familiarità di fede allenato a decifrare i toni purpurei della raffigurazione: egli sa che il suo Signore è quell'agnello immolato e vittorioso di cui canta Apocalisse; certo il Cristo risorto è il kyrios trionfante, ma - e lo ricorderebbe S. Tommaso d'Aquino - questa figura potente, mediatore assoluto e universale, artefice dei sacramenti ecclesiali, siede nella sua regalità solo in quanto forgiato dalla passione della Pasqua, dal passaggio laborioso ed oneroso di un bagno di sangue: proprio dalla sua sofferenza, dai segni della sua passione - preciserebbe Tommaso - prendono virtù e verità Parola e Sacramenti. Il Nuovo Testamento, come raccolto maturo di germogli qua e là sparsi nell'Antico, scorge nella consegna del Figlio la cifra che con più compiutezza vela e svela al tempo stesso il darsi di Dio all'umanità: è la cifra del solidale, del sofferto, del marginale, del ripudiato ... vicinanza assoluta di Dio con quella sua umanità che tanto sa di abbandono e di scarto. La morte cui il Cristo glorioso allude, davvero è per il cristiano il tratto che invera l'incarnazione, che la rende propriamente umana in quanto propriamente dentro le dinamiche dell'uomo, che sempre, in ogni epoca e in ogni luogo, ha da fare i conti con il fallimento e la sofferenza e che ovunque cerca una com-passione, guardandosi in giro e ancor più spesso guardando al cielo.
Il cristiano sa che costui, dipinto nel "tipo" veterotestamentario del servo sofferente, non è solo: la sua ostentazione, sia nella bruttura scandalosa della croce che nella glorificazione vittoriosa e finale, è opera del Padre: della sua "opera" il figlio si è fatto carico, quell'opera che coincide con la luce, con la vita, con il regno, con la salvezza. Egli compie in vita e in morte l'opera di Dio. Ne è la gloria autentica, irreversibile.
Anche l'altro, l'Assente per eccellenza, inafferrabile libertà, lo Spirito di vita, forse aleggia nella grande composizione, espresso nella raffinata e pervasiva luce dorata che si diffonde dal capo del Re alla parete centrale, e ancora al capo dei 4 esseri, posti a corona del sovrano, e ancora, in alto ed in basso, nella teoria di uomini e donne come sospesi e articolati attorno al trono.
Quasi che tutto il mistero trinitario, sorpresa inaudita dell'identità di Dio, rivelazione incredibile della sua ricchezza, fosse concentrato nel volto troppo umano del Cristo, sfiorando la bestemmia di un Dio trascendente che si fa immanente, di un "tutto" che precipita in un "frammento".
I PORTALI DI ACCESSO AL RE
Fin dai primi secoli i cristiani hanno combattuto con forza e determinazione diverse forme di lacerazioni: la più subdola e pericolosa ha assunto sin da subito i tratti rassicuranti del trascendente, dell'aereo, dell'immutabile, capace di corrodere la concretezza dell'umanità di Cristo, perché insopportabile sembrava poter vedere in quell'uomo addirittura Dio. Tutto rischiava di suonare come nota minore e sostanzialmente falsa, accidentale di una divinità ancora lontana e ancora celeste, al sicuro nella sua perfezione e nella sua gloria. Quale migliore strada si poteva architettare se non un racconto umano, una narrazione di incontri, strade, mense, parole e abbracci, viaggi e soste... che cosa di meglio di un'umanità narrata, raccontata come testimonianza di gente concreta che guarda con occhi sospettosi, speranzosi e dubbiosi un uomo? Ecco allora i 4 libri che compaiono a corona del Re, saldamente nelle mani (o zampe) di esseri che ne interpretano colore e sapore, sguardo e tonalità: il leone di Marco, il bue mansueto di Luca, l'uomo angelico di Matteo e il rapace ardito di Giovanni. Il Re è attorniato da queste 4 creature il cui ministero è conservare gelosamente il libro di una Parola fatta carne, come portali di accesso alla conoscenza piena del Re in trono. Essi sono la custodia e la rivelazione, l'alveo e la verità a protezione di quanto nessuna immaginazione può manipolare.
La rivelazione di Dio nella vicenda del Re è chiusa, ovvero oggettiva, senza che si possa prescindere da una carne precisa, da una storia avvenuta e documentata in un modo e non in un altro; ma anche aperta, consegnata alla coscienza credente di ogni epoca, di ogni condizione, perché possa continuare a vivere, mai come piatta eco, bensì come riverbero dai tratti al tempo stesso fedeli e originali. Anche i 4 esseri sono immersi nella luce diffusiva del Re, perché anch'essi partecipano dello stesso Spirito di verità e di grazia che suggella un lavoro di custodia e di responsabilità.
LA CORTE DEL RE
Se la scena centrale è chiara, univoca, appena allargata con discrezione dai 4 testimoni alati, non tutto si consuma nel trono e nelle sue immediate vicinanze. Esiste un oltre, confermato dallo sbalzo aggettante delle pareti squadrate del presbiterio, che proiettano ad incasso una destra e una sinistra, come un grande proscenio che rende non solo plurale, ma addirittura
tridimensionale una luce, un volto, una presenza: è la corte del Re, ben articolata e compatta; è il diffondersi del Cristo che da cosmico si fa ancora storico, nel dinamismo di vite concrete, volti conosciuti e storie segnate da un'appartenenza reale. Ciascuno non è volto di cortigiano, che consuma la vicinanza al re per interesse; si potrebbe dire che ciascuno è lo stesso Re, che ricompare come possibile umanità a tutto tondo ora in un'epoca ora in un'altra, chi con un tratto chi con un altro.
Anch'essi sono riverberati nella luce che promana dal Re, perché anch'essi vivono il mistero profondo della loro vita nella docilità allo Spirito: divenendo anch'essi Cristi storici, appassionati per Dio e separati per la sua gloria. Essi portano i tratti specifici che li rendono volti nati e vissuti in un piccolo angolo della terra, insignificante quanto a durata cronologica, ma di portata straordinaria nella logica del loro Dio. Essi sono dei battezzati, gente che si è legata al mistero del Cristo come ad una regalità fontale, ad un editto di benevolenza divina che non cessa di rendersi udibile, leggibile, toccabile nei riverberi della storia: in quella universale (come ricordano Paolo, Pietro e Andrea, alla destra del Re), come in quella della terra lombarda cremonese (come ricordano Omobono, Imerio e Antonio Maria), in quella del più lontano passato cristiano, come in quella di epoche più vicine. Senza che lo proclamino con fare esplicito, essi costituiscono la comunità del Re, coloro che ne hanno accolto la sovranità e si dichiarano nella totale fedeltà al suo nome, legati a lui da un vincolo che si può immaginare cavalleresco, dottrinale, caritativo, mistico ... come quello Spirito luminoso ha disposto nel suo tocco libero e imprevedibile.
Essi sono come esistenze incastonate nel tessuto storico che avvolge il Re, trofei viventi che hanno respirato all'unisono con chi siede sul trono. Anch'essi, come il Re, hanno trovato credibile, affascinante, irrinunciabile, la strada dell'agnello: ne sono stati attratti, l'hanno accettata e condivisa, l'hanno sofferta e consacrata.
IL LEGAME E IL PROSCENIO
Quella impressionante teoria di "Cristi", sospesa su piani celesti a corona del Re, concentra il proprio sguardo non sul Signore in trono, già "posseduto" come consolazione eterna, ma su chi, molto più in basso, ancora immerso nel cammino della temporalità e della possibilità di vita, si avvicina alla mensa della Parola e dell'Eucaristia o ve ne resta lontano, limitandosi a far capolino in fondo alla chiesa. Quegli occhi sono occhi solidali, che sembrano annullare la distanza fisica e ribadire la comune sostanza umana tra l'alto e il basso, senza che quei volti ieratici e luminescenti possano intimidire o suscitare invidie. Ancora una volta la raffigurazione, fatta di colori, posture, spazi tratteggia con finezza e forza il mistero della communio sanctorum: corte del Re e avanguardia umana, senato di lode e fraternità che intercede per chi ancora è per via. Da sempre l'homo viator ha chi lo precede nella buona e nella cattiva sorte, ma soprattutto nella solidarietà davvero umana perché specchio di identità che può riuscire, se lascia spazio al Sovrano. Il mosaico getta il Legame dello Spirito in un'altra direzione, estende lo spazio proprio di Dio dalle sfere celesti alla terra: la terra dell'incarnazione del Figlio, la terra della nascita e della morte, la terra del cammino, del lavoro, delle ministerialità silenziose o esplicite, tentate o riuscite. E' quel popolo variegato che accorre con la dignità del prelato e la uguale o maggiore dignità della povera madre, dello straniero come del cittadino ai piedi di una verticalità che non spaventa, ma rassicura. Ognuno è inserito in questo strano, imprevedibile eppure reale incrocio tra orizzontale e verticale, tra cammino e ascesa; nessuno si vorrebbe escluso, secondo o tanto debole da starsene in disparte, non toccato dall'invito del Re. La communio che lega i santi gli uni con gli altri è innanzitutto una communio di santificati, che Paolo definirebbe fatti giusti per grazia, mentre ancora la loro vita era immersa nel peccato del mondo; un peccato che non ha spinto Dio a restarsene sdegnosamente nei cieli in attesa di una auto redenzione dell'umanità, ma che ha mosso il Signore del tempo ad entrare nel tempo, a dominarlo con regalità inattesa, povera e ricca al tempo stesso, di quella ricchezza essenziale che solo un povero può vantare di possedere.
L'ATTO FINALE
Il trionfo del Re glorificato dalla presenza fiera e composta della sua corte, custodito dai 4 esseri alati che ghermiscono saldamente la Parola, è come l'atto finale di tanto susseguirsi di volti, storie, individualità, comunità di intenti, accordi e scontri tra persone, persone e natura, piccoli e grandi della storia. L'escaton, la cosa ultima, è declinata al personale: l'atto finale della storia dell'umanità non è un luogo, ma una persona, la persona; è l'escatos, colui che viene a giudicare vivi e morti, il definitivo personale che rende possibile e accreditabile ancora la vita perché egli stesso, come agnello condotto al macello e ristabilito per sempre sul trono della gloria, conosce il ciclo drammatico della vita e della morte e ancora della vita e ne offre la verità a tutti: li, in quel volto di giudizio severo e luminoso, sta il segreto della vita come cammino e aspirazione, speranza di approdo, anelito all'incontro. L'escatos si offre nella definitività di un ruolo che gli compete per l'eterno: svelamento della vicinanza di Dio nella sua assoluta trascendenza, giudizio efficace per la vita che Dio, da sempre, ha concepito e quasi sperato nel suo Cristo, come nuovo e secondo Adamo, primo nella logica di Dio e nel suo mistero.