“Lì amò sino alla fine” (Gv 13,1).
Questa è l’ultima cena del Signore: l’eucarestia e la lavanda dei piedi. Questo il significato della via crucis, della passione e della morte in Croce di Gesù.
Questo Giovedì Santo per me prete è l’immersione nel dolore delle nostre famiglie toccate dal lutto in questi giorni di pandemia.
Quanto dolore nelle famiglie private della prossimità ai propri cari nei giorni della malattia e dell’agonia, morti senza avere accanto le persone più amate. E così anche a noi preti è impedita la vicinanza alla nostra gente, alle persone più smarrite, agli anziani più insofferenti, alle famiglie con le loro speranze e le loro fatiche, esacerbate da questa lunghissima quarantena… Ci sono impediti i gesti della fede, i riti con cui siamo cresciuti per dire partecipazione, condivisione, evangelica compassione. Non retorica dell’incoraggiamento ma sostanza della fede in un Dio vicino, talmente prossimo da farsi crocifisso con i crocifissi.
Come è possibile onorare il padre e la madre se poi li si lascia soli nell’estremo lembo della vita terrena? Come si può essere pastori con l’odore delle pecore se poi per ordinanze devi stare lontano dalle pecore?
E ci ritroviamo nel Cenacolo, con Gesù. E ci scopriamo impediti nei gesti della prossimità e nei riti ma non nell’amore. Come il Cristo che lava i piedi agli apostoli, lui si fa loro servo, lui si piega, si inginocchia davanti a loro. E sembra dire ai discepoli di allora e poi a noi: Non capite? Andate oltre il gesto, cogliete il senso. Dentro il limite si esprime l’ineffabile mistero dell’Amore. Il limite che è il tradimento e poi le mani inchiodate; il limite che la pandemia impone con le obbedienze civili a cui siamo tenuti, per amore! Dentro il limite si esprime l’ineffabile mistero dell’Amore!
Non comprendete cosa significa una vita donata, sprecata, anche nelle forme più impensate, come la Croce, come il chicco di grano che muore, nell’umiliazione come è la distanza imposta, come nell’impedimento del celebrare insieme l’Amore del Cristo nell’Eucarestia?
Il Cristo nell’inedito e nello scandalo della Croce arriva al vertice dell’amore proprio quando le sue mani sono impedite di risanare e fare miracoli. Anche noi, dentro i paradossi di questa storia piagata rimaniamo segni scandalosamente poveri di un Dio che ama comunque, anche nell’impotenza del Crocifisso.
Siamo messi da parte, obbligati alla distanza: solo ai medici e agli infermieri e alla loro scienza e competenza è dato essere vicini. Noi come tutti gli altri, umiliati come i figli impediti di essere al capezzale del genitore, come il coniuge trattenuto a distanza mentre la persona con cui ha spartito la vita combatte la sua agonia. Tutti umiliati, senza scendere dalla Croce, con le mani finalmente inchiodate.
Non siamo più solerti organizzatori di servizi caritativi, animatori e organizzatori della comunità, predicatori davanti ad assemblee riverenti, presidenti di magnifici riti pasquali. Siamo di lato, silenziati, un po’ spaesati, e diciamolo… un po’ inutili, come colui che è appeso al legno maledetto. Ma il cuore è immerso nel mistero del Cenacolo, in una confidenza da vertigine. Nell’apprensione di questo presente languido: sono forse anch’io traditore? Nello stupore per il Cristo che si inginocchia a lavarmi i piedi. Nell’incertezza del domani: saprò testimoniare o cadrò nell’angoscia di Pietro, che spergiura: Non conosco quell’uomo!?
E ci ritroviamo portati nel Getsemani, a vegliare, nella compagnia dell’Uomo dei dolori.
L’amore non conosce solo il tempo del fare, ma anche il tempo del silenzio, il tempo della veglia, il tempo dell’attesa dell’inedito di Dio.